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Il farmaco ora lavora in «network»

di Gilberto Corbellini

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14 novembre 2009

L'incontro dedicato alla "network pharmacology" che si terrà venerdì 20 novembre all'Istituto Superiore di sanità, che lo ha organizzato insieme alla Fondazione Sigma Tau, sarà l'occasione per fare il punto, anche in Italia, sulle nuove idee che stanno rivoluzionando la logica della ricerca farmacologica. Terminato il Progetto Genoma Umano, e mentre le varie "omiche" (proteomica, trascrittomica, metabolomica, epigenomica, 'ambientomica', etc.) continuano ad accumulare masse ingenti e ormai quasi ingovernabili di dati, si cercano modelli sistemici per dare un senso conoscitivo a quelle che per ora sono quasi solo mere informazioni. E l'impatto di questi sviluppi per la farmacologia saranno rilevanti.

E ne discute in un anno che ha un significato storico non da poco per la farmacoterapia. Un secolo fa, di questi giorni, nel laboratorio dell'immunologo e chimico Paul Ehrlich, a Francoforte sul Meno, c'era, infatti, grande eccitazione. Nemmeno un anno era trascorso dal Nobel per i suoi studi immunologici, ed Ehrlich aveva fatto fare alla medicina un altro balzo avanti epocale, trovando conferma alla sua geniale idea della chemioterapia, enunciata nel 1906. Ai primi di settembre del 1909 aveva osservato che le lesioni sifilitiche di un coniglio infettato sperimentalmente guarivano a seguito dell'inoculazione del composto 606. 606 perché era il seicentoseiesimo tentativo di sintetizzare un preparato efficace contro il treponema della sifilide: al secolo si trattava dell'arsfenamina a cui sarà dato il nome commerciale di Salvarsan. La chemioterapia o "therapia sterilisans magna" non era più un'idea visionaria. In linea di principio si potevano costruire "pallottole magiche", cioè composti chimici artificiali in grado di uccidere i microbi patogeni senza danneggiare l'organismo ospite. In realtà, gli effetti collaterali del Salvarsan erano micidiali. Ma, col tempo, si poteva migliorare.

Per preparare le "pallottole magiche" diceva Ehrlich, servono quattro "G": Geld (denaro), Geduld (pazienza), Geschick (abilità) e Glück (fortuna). Il denaro veniva dalle industrie tedesche di coloranti tessili, che a fine Ottocento, constatando l'efficacia terapeutica di alcuni prodotti di sintesi, si andavano appunto trasformando in industrie farmaceutiche (ad esempio la Bayer). La pazienza e l'abilità erano le doti della nuova figura di medico-scienziato, che operava attraverso il metodo sperimentale per scoprire, modificare e mettere sistematicamente alla prova i numerosi prodotti di sintesi che uscivano dai laboratori chimici. La fortuna non era altro che la cosiddetta serendipity, cioè la scoperta fortuita che una determinata sostanza è dotata di un'attività farmacologica: il 'metodo' che ha prodotto i più clamorosi successi della farmacoterapia.

La storia della chemioterapia, e delle sue basi scientifiche, cioè della farmacologia è uno dei capitoli più gloriosi della scienza medica moderna. Con buona pace di quelli che han paura dei vaccini o si affidano superstiziosamente ai prodotti omeopatici.
L'invenzione/scoperta di pallottole magiche, dotate di specificità (leggi selettività) esclusiva per i bersagli, ha costantemente ispirato la ricerca dei farmaci. Tuttavia, a parte gli anticorpi monoclonali, la sintesi de novo di molecole fatte su misura per il bersaglio, che soddisfino in modo ottimale i requisiti di efficienza, tolleranza, assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione si è rivelata un'illusione. Che molti farmacologi ancora rincorrono. E che in sé stessa non è certo pericolosa. Forse limita la ricerca di modelli più pertinenti della logica biologica all'interno della quale i principi attivi devono inserirsi per fare il loro lavoro.

Per dire. Il concetto ehrlichiano di specificità dell'interazione tra farmaco e bersaglio, concepito attraverso il modello meccanicista della chiave e della serratura era fuorviante. Una buona chiave non apre più di una serratura alla volta, diceva Ehrlich. Ma sbagliava. I bersagli dei farmaci sono molecole biologiche e la selezione naturale non fa le cose in modo 'preciso'. Non meno semplicistica è stata la ridefinizione della specificità tridimensionale delle proteine-bersaglio in termini di sequenza di amminoacidi univocamente codificate a livello genetico. Entrambi gli approcci furono utili, in prima istanza, come modelli semplificati per scoprire che la realtà è più complicata. Peraltro, la flessibilità dei processi di costruzione delle molecole e la modularità delle reti di interazioni all'interno delle cellule e tra le cellule hanno rappresentato una strategia evolutiva di successo per sviluppare tratti fenotipici più plastici in rapporto all'ambiente, e quindi più adattativi. E' con queste reti di segnalazioni, di cui la biologia sistemica sta cercando di catturare le regole operative, che la farmacologia deve cominciare a fare i conti.

Stando così le cose, le aspettative che oggi ispirano i drug designer, cioè di non aver più bisogni della serendipità grazie a più avanzate conoscenze e tecniche che consentiranno di progettare e sperimentare 'in silico' farmaci dotati delle proprietà chimiche e biologiche desiderate, sono fuorvianti. Retaggi di un modo di pensare meccanicistico e riduttivo. Euristicamente inadeguato. La natura biologica e quindi la collocazione in un contesto di interazioni biochimiche, quantitative e qualitative, dei target terapeutici implicano che oltre a una solida scienza e a modelli teorici plausibili, continueranno a essere essenziali e di grande aiuto per i farmacologi l'intuizione e la serendipity.

  CONTINUA ...»

14 novembre 2009
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